Giorno del ricordo per non dimenticare l’orrore delle foibe

PIEVE SANTO STEFANO – ARCHIVI DIARI – i celebra oggi il “Giorno del ricordo” per non dimenticare l’orrore delle foibe e la tragedia del confine orientale: cinquemila italiani uccisi dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito tra il 1943 e il 1947 per il solo fatto di essere italiani. In molti casi massacrati e gettati ancora vivi nelle foibe. Una giornata solenne istituita nel 2004 per non dimenticare l’orrore di quella drammatica pulizia etnica e politica, “in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”.

L’Archivio dei diari vuole commemorare questa ricorrenza attingendo come sempre alle testimonianze conservate a Pieve, questa volta scegliendo alcune pagine di straziante valore per la nostra memoria, dalle quali affiora l’esperienza di Corrado Varnier, nato a Trieste, poco più che bambino quando nel maggio 1945 assiste all’invasione della città e all’inizio dei massacri.

Al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe.

Forse erano le nove del mattino, quando m’affaccio alla finestra e guardo in direzione delle colline delle cave Faccanoni, e del boschetto, il famoso bosco sopra S. Giovanni e che fiancheggia i caseggiati di S. Luigi che ben si vedono dal nostro davanzale del secondo piano. I miei occhi sono ancora lenti a percepire, non sono ben riposati. Certo, le notti passate per terra non hanno donato il sonno ristoratore, e pesante, tipico dei fanciulli.

Lentamente vado a stropicciarmi gli occhi, e cerco di focalizzare quelle strane cose che vedo muovere lentamente, lungo il pendio del bosco. Ma come, il bosco era una spianata colore ocra, lo vedo ogni giorno e più volte al giorno; insomma ogni momento, quando m’affaccio al davanzale, vedo le colline, il bosco, il rione di S. Luigi. Il bosco e una spianata… ma ora… che vuol dire… cosa sono quei cosi neri che si muovono qua e là… e a volte si fermano. “Ma sono cresciuti i pini”, dico a mia madre, “sono ricresciuti i pini… ma come mai si muovono? Vieni a vedere!” Nel contempo alcuni militi, appostati sulle finestre dell’ospedale militare, insistono a sparare verso la Villa Giulia, e vedo i proiettili sfrecciare davanti alle mie finestre. Mia madre s’affaccia, guarda… guarda a lungo… s’insospettisce e non dice niente… Dopo un po’ si riprende come stordita dallo stupore e dice soltanto. “Andiamo via!” “Chiudiamo le finestre!” “Mamma mia, cosa sara ora?” La gente per le scale s’interroga, si da coraggio, si consiglia. C’è chi suggerisce di far finta di niente, tanto… Altri minacciano il peggio… Altri ancora incitano a correre nuovamente nelle cantine, prendere gli averi con se, sbarrare le case. Nascondere ciò che può essere compromettente. Nel giardino della casa si vanga la terra qua e la tra aiuole e vasi di fiori, e qualcuno vi sotterra delle buste o degli astucci; anche la mia uniforme di figlio della lupa finisce sottoterra. Quelli sono i partigiani, sono gli slavi comunisti di Tito. […]

L’armata yugoslava ha preso possesso della citta […] i componenti del CLN, volontari giuliani, che hanno dato corso all’insurrezione della città qualche giorno prima sono disarmati, esautorati, in parte arrestati, e cacciati. Devono tornare nella clandestinità. La citta assiste indifesa a un drastico cambiamento di vita. Direttive, comunicati di vario genere, per lo più ingiunzioni, ordinanze e minacce. Tutti indistintamente, se militari o partigiani di diverso stampo politico, devono presentarsi per consegnare le armi. In citta regna una gran confusione, mentre i militari titini pattugliano tutte le strade; vengono organizzate imponenti manifestazioni, con gran sventolio di bandiere bianco rosso blu e stella rossa. Una gran massa di persone in abiti civili, per lo più popolazioni fatte scendere dai paesi dell’entroterra, sfilano scandendo slogan inneggianti al maresciallo Tito, l’eroe popolare che ha portato alla vittoria il movimento comunista jugoslavo, a Stalin, il dittatore sovietico, alla città di Trieste diventata jugoslava. […] Bisogna dar corso subito al processo di de-italianizzazione del territorio, e iniziare subito quello di slovenizzazione e croatizzazione, che costringerà all’esodo, sotto terrore e minacce, 350.000 istriani italiani. […]

Scompaiono italiani, ma molti anche slavi e croati  di estrazione cattolica, liberale, democratica. E corrono i camion su per la via Fabio Severo, carichi di uomini, di giovani che gridano, scortati da armati.

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