1871: un inglese alle Sorgenti del Tevere

Fino agli inizi del Novecento era difficilissimo raggiungere le sorgenti del Tevere, lontane, deserte e quasi rimosse dall’immaginario geografico, prive di viabilità, di indicazioni sui sentieri, su difficoltà, tempi di percorrenza, luoghi ove pernottare: rari pertanto furono i viaggiatori che le raggiunsero. Uno di questi fu l’inglese William Davies (1813-1873), scrittore e pittore, che raccontò in un libro il suo lungo viaggio verso le sorgenti del “Vecchio Padre Tevere”, compiuto nell’estate del 1871 (The pilgrimage of the Tiber, Londra 1873)

Il suo è un viaggio che ripercorre a ritroso il Tevere in cerca del luogo in cui, con la sua sorgente, ha avuto origine anche la civiltà di Roma che ha cambiato il mondo: l’ascesa alle sperdute sorgenti del Tevere, dunque, come meta di un più complesso itinerario, un viaggio nel mito e nel tempo. Lo accompagna nella spedizione, difficile per la mancanza di strade, il pittore inglese Edgar Barclay (1842-1913); ad essi si aggrega a Perugia anche Elihu Vedder (1836-1923), pittore, scultore newyorkese. Con loro, su un calesse, giunge a Pieve S. Stefano un lunedì, giorno di mercato: in quell’animazione di contadini e donne dai grandi cappelli, osserva divertito alcune donzelle intrecciare furtivi colloqui romantici coi loro spasimanti, mentre i genitori sono intenti a vendere o comperare. Pieve S. Stefano, “paese alla buona che si sviluppa lungo il fiume”, è a solo 20 miglia dalla meta. Ma è un tratto “molto impervio, privo di strade e in alcuni posti perfino di sentieri”, da affrontare a piedi o a dorso di mulo, senza incontrare “altro che la desolazione dei monti o stentate colture e sparuti gruppi di case che non meritano nemmeno il nome di villaggio”: ma, come ogni pellegrino, sa che il viaggio spesso non può “esser fatto percorrendo strade comode”.Li guida Tommaso Ricci – il figlio del proprietario della locanda di Pieve, ove avevano preso alloggio – lungo un malagevole sentiero “che si stendeva lungo i dirupi dietro desolate cime o si gettava negli anfratti d’un bosco ombroso” aprendo la vista su valli selvagge e strette gole – forse da Capotrave per Corliano al Poggio della Bandita, da cui poi sono scesi per Casaccia – fino ad un “piccolo podere di montagna, con le capre che brucano ed un ramo di un vecchio arbusto affisso sulla porta, per indicare un’osteria”. Durante il veloce ristoro, apprendono che nei dintorni è nascosta una banda briganti. I viaggiatori, pur armati e pratici di armi, affrettano pertanto il passo e giungono sull’alto di una valle spaziosa, delimitata “da una vasta catena montuosa chiamata Balze”, ai cui piedi “si trovava una chiesa e qualche casa, nobilitata con il nome della montagna”: vi si dirigono, subito circondati da donne, uomini e bambini. Accaldati, stanchi e polverosi, rinunciano ad un pasto e ad una sosta ristoratrice per recarsi subito alla sorgente del Tevere, “oggetto del pellegrinaggio”. Un vecchio li guida lungo un ruscello che scende in una folta faggeta tra cascatelle, felci e muschio, frantumandosi in vari rivoli. Dentro una radura colma di boccioli, gerani e salici nani, seguono il rivolo più lungo fino a dove scaturisce. Lì, il vecchio si ferma e, appoggiato al bastone, fissa con gli occhi stanchi quell’acqua zampillante e mormora: “E questo si chiama il Tevere a Roma”. Mentre il vecchio guarda con stupore quegli stravaganti giunti da tanto lontano solo per vedere sgorgare quell’acqua, Davies è emozionato per aver alfine raggiunto l’agognata meta del suo spirito, che non è solo l’origine del Tevere ma quella di tutta la storia di Roma: “Era come assistere alla nascita di qualcuno che avrebbe dominato e cambiato il mondo. Era come se tutti gli inconvenienti della giornata svanissero in questo punto. L’intera storia del fiume risvegliò in me una sensazione d’una vastità incontrollabile, dal primo insediamento costruito sulle sue rive, passando per lo splendore della magnifica storia di Augusto, fino alla moderna città ecclesiastica. […] Era come vedere l’intero fluire delle loro vite in un solo istante”. Si dissetano a lungo a quella piccola sorgente, senza la quale la storia sarebbe stata diversa e probabilmente Roma non sarebbe esistita; poi, raccolti mazzi di fiori, si recano all’altra, seguendola poi fin dove i due rivi s’incontrano. E lì, seduti all’ombra di un vecchio faggio “dal tronco contorto quasi stesse soffrendo”, Vedder e Barclay disegnano “due preziosi schizzi” pur in ansia per la vicinanza dei briganti. Non furono disturbati: e per un’ora poterono ammirare il panorama del Fumaiolo e di quella catena di rocce “le cui romantiche cime creano una sublime bellezza”.

fonte: Giuliano Marconcini

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