
Aveva ricoperto anche la carica di presidente della Regione Lombardia. Era malato da tempo. La famiglia: “Chi è amato non conosce morte
La malattia e il ritiro dalla corsa nel 2021 dell’ex governatore lombardo ed ex segretario federale della Lega, morto oggi per un tumore. Roberto Maroni è morto oggi, alle 4 di notte, nella sua casa di Lozza, un paese del varesotto. L’ex ministro dell’Interno e segretario delle Lega aveva 67 anni ed era malato di tumore. Qui l’ultima intervista al «Corriere»: «Per guidare la Lega serve un moderato. La mia malattia? Sto facendo tutte le cure». Il ricordo della famiglia: «Fino all’ultimo, a chi gli chiedeva come stava, ha sempre risposto: “Bene”. Sei stato un grande marito, padre e amico» Gli inizi della Lega con Bossi – Nato a Varese nel 1955, Roberto Maroni è stato per oltre vent’anni uno degli uomini politici più importanti d’Italia. A scuola fu uno studente di Legge che votava Democrazia Proletaria. L’incontro nel 1979 con Umberto Bossi cambiò la sua vita e se “lui è il papà della Lega, io ne sono la mamma”, spiegava. Perché da quel giorno la politica diventò il suo lavoro, mentre il calcio e la musica restarono solo passioni. Continuò sempre ad andare a San Siro a vedere il Milan e a suonare blues con l’organo Hammond nella sua band, i Distretto 51, oltre ad ascoltare i dischi del suo idolo Bruce Springsteen. Voleva studiare filosofia e fare il giornalista, fece giurisprudenza e l’avvocato. Bossi lo voleva a tempo pieno nella Lega e lui non voleva mollare l’ufficio legale di Avon («Facevo meglio a restar là»), ma già nel 1990 è consigliere comunale a Varese. Pochi anni più tardi, primo ministro dell’Interno non democristiano, firmò il decreto Biondi che fu ribattezzato «salvaladri» e il giorno dopo se ne pentì.
Poco dopo, Bossi decise di sfiduciare il primo governo Berlusconi ma lui no, si oppose. Il popolo leghista non la prese bene, era furioso, ma Bossi lo salvò dalle ire della base. Perché Maroni era anche quello: poco propenso allo scontro, ma capace fino all’ultimo giorno di far sentire e valere il proprio punto: «Ho perso? Ma no, ho tenuto la posizione…». L’anno dopo, nel 1996, lui già entrato e uscito dal Viminale per la prima volta (saranno due), si guadagna l’unica condanna della sua vita, quella per aver addentato il polpaccio di uno dei poliziotti che stavano perquisendo via Bellerio a causa della fondazione della Guardia nazionale padana. Dai tafferugli uscì in barella. Anche lì, aveva tenuto la posizione. Molti leghisti hanno sempre messo in dubbio il suo afflato indipendentista, e il dubbio è legittimo, però fu pure «primo ministro» della Padania e presidente del Parlamento del Nord. Salvini allora militava nei comunisti padani, Maroni stava con i Democratici Europei, riformisti e laburisti. Al Viminale si conquistò la palma di «miglior ministro dell’interno di sempre». Lo dicevano in tanti, tutti, soprattutto da sinistra, ma la consacrazione fu quando certificò il titolo Roberto Saviano, nel pieno del successo di Gomorra. Si narra che a convincere dell’incarico uno scettico Oscar Luigi Scalfaro fu l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, dopo una cena con Bossi e lo stesso Maroni. Fatto sta che da ministro partecipò con il suo amato gruppo, il «Distretto 51», al festival soul di Porretta terme. Scritta sulla maglietta: «Radio Mafia». Da ministro, la prima dichiarazione fu: «La Lega federalista, con un leghista al Viminale, diventa il garante dell’unità d’Italia». mPer anni tutti si sono chiesti se nelle frequenti sconfessioni delle trattative costruite da Bobo da parte di Bossi, il giovane di Lozza giocasse di ruolo e sempre di concerto con il Capo tonante: «A Bobo ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato».