
Il 10 febbraio è la giornata in cui si celebra il Giorno del Ricordo. In questa occasione, condividiamo un testo di Matilde Lizzul, conservato nell’Archivio dei diari. Nel 1946, a 23 anni, Matilde lasciò la sua città, Fiume, insieme a molti altri. Il suo racconto è una testimonianza di quel viaggio e di ciò che ha vissuto. Oggi, attraverso le sue parole, diamo spazio al ricordo di chi ha attraversato quei momenti, custodendolo come parte della nostra memoria.
Quando nell’aprile del 1941 Germania e Italia invasero la Jugoslavia abitavamo tutti a
Fiume. La nostra bella città era proprio al confine con la Jugoslavia, perciò, in caso di
guerra, saremmo stati in prima linea, il che significava correre un grandissimo pericolo.
Venne l’ordine di lasciare la città e fummo obbligati a sfollare.
I miei genitori decisero d’andare dal nonno a Sumber, un paesino dell’Istria orientale,
perché sembrava un luogo sicuro. Partimmo su un camion dove la mamma e il papà
avevano messo solo le cose necessarie e soprattutto roba da mangiare: noi eravamo in
cinque. Quando arrivammo a Sumber, tutto il villaggio ci venne incontro. E solo allora,
quando si resero conto del nostro sfollamento, quei contadini che vivevano
completamente staccati dal mondo si resero conto della gravissima situazione di Fiume
e dell’Italia. Rimanemmo in Istria per circa tre settimane perché, per ragioni
strategiche di guerra, il fronte era stato spostato in Croazia. Così tutti i Fiumani
poterono ritornare a casa. Anche se ciò non significò la fine della guerra: al contrario,
questa esplose con tutta la sua potenza. Continuarono i bombardamenti giornalieri,
ossessionanti, che a poco a poco distrussero tutte le città. Per fortuna, a Fiume,
c’erano tanti rifugi, necessari per accogliere tutti i cittadini terrorizzati dall’invasione
dal cielo, di questi aeroplani che lanciavano le bombe dappertutto. I nostri rifugi erano
stati scavati dentro alle colline della città. Erano ampi, alti e sicuri, e molte volte
dovevamo rimanere chiusi là dentro non per ore, ma per giornate intere.
Ma per noi Fiumani la vera tragedia cominciò dopo la fine della guerra, nel 1947,
quando per il Trattato di Londra la nostra città fu ceduta alla Jugoslavia.
Una decisione tragica per tre motivi: era difficile accettare il feroce regime comunista
di Tito. Molti fiumani erano profondamente italiani. Chi voleva mantenere la
cittadinanza italiana non poteva rimanere a vivere a Fiume.
Vivere sotto il tremendo regime di Tito creava delle difficoltà insuperabili, perché il
regime defraudava la popolazione della sua proprietà e soprattutto ne annullava la
dignità e l’indipendenza. Cominciò così la nostra agonia. Questa volta nessuno ci mandò
via, come era successo nel 1941, ma fummo noi stessi, cittadini fiumani, a decidere di
lasciare per sempre la nostra città. Cominciò così fin dal 1945 il grande ‘Esodo’ che fu
una fuga da un regime di terrore, andammo avanti, lentamente, per anni: il 90% della
popolazione incominciò a lasciare la nostra amata città. Non è facile per nessuno e
specialmente per una famiglia abbandonare la propria terra, la terra dei suoi avi, dei
suoi morti; non è facile lasciare improvvisamente tutte le cose che hai amato, quelle
che ti davano tanta pienezza e serenità, allontanarti per sempre dalla tua casa, dal tuo
modo di vivere, da tutte quelle persone che per anni ti hanno accolto, ascoltato, voluto
bene e con cui hai condiviso la tua vita. Adesso bisognava proprio lasciar tutto, tutte le
nostre sicurezze, le cose che si erano accumulate pian piano, negli anni, con le nostre
capacità e i nostri sforzi. Non sai, non puoi decidere dove andare, ma devi farlo, per
non morire di disperazione e paura, perché se rimani, è solo questo che ti aspetta.
Non era facile.
Per andar dove? La guerra era appena finita, le città non esistevano più perché molte
case erano diventate montagne di macerie. Il caos e la confusione dominavano
dappertutto.
Io fui la prima della famiglia a lasciare Fiume, il 15 gennaio 1946. Avevo 23 anni.
Dopo aver trovato un piccolo camion, perché non esisteva nessun mezzo regolare di
trasporto, arrivai alla stazione di Trieste, la città più vicina a Fiume, da dove partivano
tanti treni nelle diverse direzioni, a sud e a nord d’Italia. L’affollamento alla stazione
era incredibile, con urla, grida, pianti che si sentivano da tutte le parti e si percepiva
nell’aria l’ansia, l’angoscia, la preoccupazione.
E vidi una fila di otto bambini legati tutti assieme ad una lunga corda. Erano di un papà
previdente che, per non perderli, aveva trovato questa soluzione.
Io riuscii finalmente a prendere il treno per Venezia, dove cominciò la mia nuova vita.
Matilde Lizzul
bravo