
PIEVE SANTO STEFANO – Era quasi l’alba, davanti a noi apparve una grandissima conca, tutta bianca di neve immacolata, era spaventosamente bella a guardarla, affascinava e metteva paura allo stesso tempo, al centro c’erano tre casette che emettevano un tenue filo di fumo. Qualcuno disse: “Se quelle case sono abitate significa che abbiamo raggiunto le nostre retrovie”.
E molti si misero a correre ma la neve fermo presto il loro entusiasmo. Io guardavo la scena ma pensavo a casa mia e mi chiedevo: “24 dicembre, vigilia di Santo Natale. Cosa faranno i miei cari? Andranno a Nola a comprare le vongole, i capitoni, i dolci e i fuochi d’artificio. Chissà se stanno bene? Sono sicuro che in cima ai loro pensieri ci sono io”. Sentii le lacrime calde sulle guance diventare subito fredde. Camminavo confuso e sballottato in quella massa di uomini, in testa alla colonna qualcuno aveva già raggiunto tre casette dalle quali partiva una strada che portava dove finiva la conca sull’altura.I tedeschi nel frattempo continuavano a sparare traccianti di colore verde e la nostra speranza cresceva anch’io ne ero contagiato. […] Mi accorsi che avevo i calzini molto bagnati e pensai di cambiarli con un altro paio che avevo nello zainetto con le sigarette: avrei avuto tutto il tempo prima che la lunghissima colonna terminasse di passare. […] Finita l’operazione calzini e rimesse le scarpe e fasce, mi sentii i piedi meno gelati , poi mi accesi una sigaretta e ne aspirai il fumo con gran sollievo, ma mentre mi accingevo a chiudere lo zainetto udii un rumore come di mille tamburi che suonassero a ritmo incredibile: erano spari di mitragliatori, parabellum e fucileria provenienti dal costone dove finiva la strada; rimasi impressionato dallo spettacolo che vidi : tutti quelli che erano in testa cadevano senza potersi difendere l’uno sopra all’altro; che cercava invano di allontanarsi dalla linea di fuoco veniva falciato senza pietà.Tutti gli altri della colonna come un’onda contro gli scogli, si ritiravano cercando riparo dietro i dislivelli o si nascondevano negli avvallamenti di terreno. Rimasi come paralizzato con il mitra puntato senza sparare, volevo vedere il bersaglio, ma quando sentii che i mie compagni non reagivano, allora mi decisi a sparare cinque o sei colpi rasente il costone.Poi, senza lo zaino, uscii dalla casetta e andai sul retro dove trovai tre compagni che sparavano continuamente; uno era siciliano e quando mi vide con il mitra me lo tolse di mano e si mise a sparare lui come un forsennato; io cercavo di capire: “ Ma a chi spari al costone?”. Lui mi rispose: “ Bedda matre , non vedi che quelli in fondo alla colonna stanno salendo il costone per prendere i russi alle spalle”. […]Il siciliano agitato grido:” Quando saremo sicuri che i nostri sono sul costone, attaccheremo i russi, dobbiamo andare tutti all’assalto; solo così potremo vincere”. Poi aggiunse: “Passate l’ordine!”. Lo guardai con ammirazione, io non ero certo un combattente valoroso come lui e tanti altri. Guardai ai piedi del costone e poi tutto lo spazio davanti, dovunque giacevano morti, la neve non si vedeva quasi più, calcolai oltre mille caduti. […] Appena udii una gragnola di spari provenienti dal costone capii che i soldati italiani si erano avvicinati ai russi e, come una marea partimmo tutti all’assalto con baionette e bombe a mano.I russi ben appostati, ben armati e mentalmente riposati facevano strage dei nostri, ma l’assalto continuava; io con il siciliano e molti altri ci avvicinammo al costone dove erano appostati i russi e ci mettemmo a tirare le bombe a mano; io en avevo sei e le tirai tutte. […] Un ufficiale gridò: “ Ritiriamoci e ripariamoci come possiamo, qui moriamo tutti”, poi riprese dicendo: “ Guardate sui dossi, alle nostre spalle, si intravedono i tedeschi , io credo che verranno in nostro aiuto”. Corremmo goffamente con il pastrano pesante e per la debolezza causata dalle sofferenze e riuscimmo a metterci al riparo, altri caddero sotto i numerosi colpi sparati dai russi. […] Uno colpo di mortaio scoppio con fragore a pochi metri da noi, i quattro miei compagni si buttarono a terra, mentre io, frastornato dallo scoppio, rotolai su me stesso due, tre volte, poi corsi su una buca e mi ci buttai dentro. Con mia sorpresa e grande paura finii oltre due metri sotto andando a urtare le teste di donne e vecchi russi che mi misero in piedi in mezzo a loro e impauriti mi chiesero se i russi erano scappati; io risposi subito affermativamente. Sarei stato volentieri in mezzo a loro perché stavano caldi; quel calore umano un po’ maleodorante era per me un ristoro, lo sentivo sul viso e nelle narici e mi conciliava quasi il sonno. Sentii però il siciliano implorare la mamma ad alta voce , disse: “ Mamma bella! Mi hanno ferito, mi sento male!”. Senza esitare salii sulla piccola scaletta e uscii dalla buca; i miei due compagni sparavano, l’altro confortava il ferito; mi avvicinai e con pudore accarezzai il viso del povero siciliano che aveva gli occhi chiusi e si agitava molto, continuando a chiamare la mamma. […] Ne rimasi così commosso che diventai davvero come una donna; lo strinsi forte al petto e gli dissi: “Figlio mio, sono la tua mamma, sto qua con te”. Il siciliano aprì gli occhi e mi guardò con due grandi occhi neri, velati di lacrime. E così mori. Con gli occhi neri spalancati, velati di lacrime che mi fissavano, sorpreso e incerto se io fossi davvero la sua mamma. Non si sparò più sia da parte nostra sa dei nemici; dopo tre minuti venne avanti giù dal costone una dozzina di russi tutti armati di parabellum ; non sparavano ma gridavano : “ Mani in altro” – “ Ruchi savierchi”. Quelli che capivano il russo alzarono subito le mani e così feci anch’io e tutti gli altri, mentre quelli che erano a più di cinquecento metri da loro tentarono la fuga. I russi aprirono un fuoco infernale sui fuggitivi, mentre noi prigionieri fummo portati sul costone dove c’era una strada e ci fecero inquadrare per nove. Da qui potemmo vedere tutto l’orrendo spettacolo. […]Ci fu tolto tutto : orologi, anelli, catenine, ci rimasero – come si dice – solo gli occhi per piangere.Era l’imbrunire e pensavo che alla vigilia del Santo Natale a casa mia a quell’ora si mangiava: vermicelli con le vongole e capitone. Un colpo di cannone interruppe i miei pensieri ; era stata colpita una casa a due piani e i russi con le armi spianate ci fecero capire che dovevamo camminare alla svelta. Gridavano come forsennati: “ Davai bistré”, che in italiano vuol dire “ Avanti presto” e così incominciammo a marciare. Dalla memoria di Francesco Stefanile. In queste righe il tempo non scorre: resta sospeso. C’è l’infanzia che riaffiora all’improvviso, una casa lontana evocata con precisione assoluta, il gesto minimo di cambiare dei calzini, una sigaretta accesa come si accende un pensiero. E poi c’è ciò che resiste più di ogni altra cosa: la capacità di riconoscere l’altro, di prendersene cura, di restare umani anche quando tutto intorno sembra negarlo.La memoria non conserva solo i fatti: trattiene i dettagli, le esitazioni, le fragilità. È lì che si nasconde la sua forza. È lì che continua a parlarci, oggi, mentre attraversiamo un tempo che chiede attenzione, ascolto, responsabilità verso ciò che verrà.L’Archivio dei diari esiste per questo: perché queste voci non si disperdano, perché continuino a interrogare il presente senza alzare la voce, perché il passato resti una materia viva, capace di generare senso.
Che il nuovo anno sappia accogliere questa eredità viva.
E che la memoria continui a trovare spazio, cura, futuro.A chi ci legge, i nostri auguri di buon Natale e di un nuovo anno pieno di tempo buono, attenzione e memoria condivisa.Tra i doni di questi giorni ce n’è uno che non si scarta, ma resta. Un gesto rivolto a un luogo amato, che custodisce ricordi, emozioni, vite affidate alla scrittura. Sostenere l’Archivio dei diari significa prendersi cura della memoria, trasformando un atto personale in un aiuto concreto per proteggere e valorizzare le storie che qui trovano casa
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